Un
progressivo smarrimento della democrazia e della pacifica
convivenza,
per ritornare alla Bestia dell'intolleranza
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Anni fa, lo
scrittore ex deportato nei lager nazisti, Primo Levi, autore di "Se questo è
un uomo", libro shock nel quale egli rievocava la dolorosa esperienza ad
Auschwitz, poneva in guardia l'opulenta, civile e smemorata società italiana dal
pericolo sempre presente rappresentato dal razzismo. La convinzione che "ogni
straniero è nemico" - scriveva Levi - "giace in fondo agli animi come una
infezione latente; si manifesta in atti saltuari e incoordinati, e non sta
all'origine di un sistema di pensiero. Ma quando avviene, quando il dogma
inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della
catena, sta il Lager".
Questa convinzione accompagnò sino agli ultimi
istanti della sua vita lo scrittore italiano, anzi, si può dire con certezza che
essa fu all'origine di quel dramma interiore che spinse Primo Levi a togliersi
la vita. La consapevolezza dell'incommensurabilità del male sofferto e d'altro
canto l'obbligo morale di trasmetterne la memoria, fin dai primi giorni del
dopoguerra, rappresentarono una costante preoccupazione per Primo Levi .
Tramandare alla posterità la memoria dell'olocausto fu perciò il compito della
sua vita, il motivo principale che lo portò a scrivere libri. Nonostante tale
impegno, tuttavia, Levi fu sempre conscio della limitatezza dei suoi mezzi, e
soprattutto dell'inevitabile oblio che il trascorrere degli anni comporta per le
cose umane, condizioni che non lo rendevano ottimista circa la definitiva
scomparsa dall'orizzonte storico della Bestia.
Tra i pensieri neri
che lo assillavano negli ultimi tempi v'era ,infatti, la domanda se quanto
patito era già tornato o fosse sul punto di "ritornare". E purtroppo, noi che
gli siamo sopravvissuti, non possiamo dargli torto.
Basti infatti dare uno
sguardo alle cronache italiane ed europee dell'ultimo decennio del XX secolo,
per rendersi conto che i timori di Levi erano lungi dall'essere infondati:
l'aumento esponenziale delle violenze a sfondo razziale e xenofobo, le
profanazioni dei cimiteri ebraici, le aggressioni anche solo verbali contro i
diversi, costituiscono la riprova più eloquente che il male assoluto provato
dallo scrittore d'origine ebraica è quanto mai vivo nel cuore del civilissimo
Occidente cristianizzato.
Aggressione, intemperanze, i siti internet (e
non solo i siti) in cui si invoca a gran voce lo sterminio degli immigrati, lo
stillicidio di violenze verbali da parte di esponenti politici, le campagne
mediatiche orchestrate per ottenere riscontro di pubblico, facendo leva sui più
logori stereotipi razziali, religiosi e sessuali, stanno ad indicare quel
progressivo smarrimento della democrazia e della pacifica convivenza,
propedeutico all'avvento della Bestia dell'intolleranza.
Se allo stadio, ogni
domenica, i giocatori di colore che militano nel nostro campionato sono
bersaglio delle invettive razziste delle tifoserie- terrone, romane, padane- (
"Scimmia" è l'epiteto rivolto dagli ultras veronesi e laziali al giocatore di
colore Seedorf) se nelle scuole i corridoi e i bagni sono imbrattati di scritte
inneggianti al Fuhrer, alle Schutz Staffen, e contro gli "ebrei bavosi" e gli
"sporchi negri", torna d'estrema attualità la domanda che Levi si poneva in
tempi non così sospetti come gli attuali: "Che cosa può fare ognuno di noi,
perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga
vanificata?".
Ebbene, la prima cosa da farsi ci è suggerita proprio dal
sacrificio dei martiri del nazismo, da quanti cioè si opposero alla barbarie
hitleriana continuando a fare opera di testimonianza evangelica, rifiutandosi
nella pratica di prestare servizio nella Wermacht e opponendosi con la parola di
Cristo all'ideologia razzista del III Reich.
Il martirio dei Bibelforscher (i
2000 seguaci del movimento geoviano condannati a morte perchè si
rifiutarono di prestare il servizio militare. Ndr) e di tutti quanti coloro che
perirono nei campi di sterminio insieme agli ebrei, agli slavi e agli zingari,
chiede innanzitutto che sia salvato il ricordo dell'Olocausto lottando contro i
revisionisti e i negazionisti, cioè contro quegli storici ed esponenti politici
che definiscono la politica di sterminio condotta dei nazisti un "dettaglio" nel
più generale orrore del II conflitto mondiale, spingendosi sino a negare
l'esistenza stessa dei campi di concentramento.
Accanto a questa
battaglia, diremmo della memoria, un'altra non meno ardua deve essere
combattuta, quella cioè contro la mentalità che giustificò i campi di
concentramento e che, come abbiamo cercato di dimostrare, è ancora ben viva
nella nostra società. I semi dell'intolleranza trovano oggi un terreno assai
fertile nelle oscure parole di quei leader che parlano di eccesso di stranieri
nella civilissima Europa, nei richiami di quegli esponenti delle gerarchie
ecclesiastiche che invitano le autorità laiche a selezionare gli ingressi nel
nostro paese in base alla confessione professata, per difendere "l'identità"
italiana , finanche in quel documento della Congregazione per la Dottrina della
Fede, cioè dell'ex Sant'Uffizio, intitolato "Dominus Jesus", nel quale si
afferma, senza mezzi termini, che "Solo nell'unica e universale chiesa cattolica
ci può essere salvezza", mentre i seguaci delle altre religioni possono sì
ricevere la grazia divina, ma si troveranno sempre in una situazione
"oggettivamente deficitaria" rispetto a credenti cattolici, gli unici a poter
disporre "della pienezza dei mezzi salvifici".
Eppure, in Italia,
ci si continua a gongolare nell'idea di una nostra presunta tolleranza ab
origine, di un atteggiamento geneticamente portato al rispetto di altri popoli,
culture e religioni, di una bonomia e di un fair play verso i diversi senza
eguali nel resto del pianeta. Uno stereotipo antirazzista, educato e tollerante
che come tutti i luoghi comuni, mostra evidenti forzature soprattutto se si
guarda alle recenti trasformazioni che hanno portato l'Italia ad occupare i
primi posti tra le potenze industrializzate, e alla sua storia nel secolo che
sta per chiudersi, in particolare alla triste esperienza del ventennio
fascista.
Fare i conti con l'infezione latente dell'intolleranza è forse nel
nostro paese un'operazione più difficile che altrove, anche della stessa
Germania. Una difficoltà che nasce dalla presunzione di essere migliori di altri
e dal peso di una memoria fin troppo edulcorata.
La sostanziale
continuità dello Stato, dopo la caduta del regime fascista, l'azione mediatrice
svolta dalla Chiesa di Roma, insieme all'oggettiva minore intensità del fenomeno
persecutorio contro le minoranze etniche e religiose nel nostro paese, hanno
contribuito alla rimozione delle responsabilità collettive durante la dittatura
mussoliniana, impedendo, nonostante la retorica antirazzista dell'età
repubblicana, una effettiva resa dei conti con il nostro passato. Un vero e
salutare esame di coscienza non è stato possibile perché si ebbe interesse ad
avvalorare da subito la falsa e assolutoria convinzione di essere stati
trascinati in un conflitto tremendo da un alleato più potente e più feroce,
analisi che sospendeva qualsiasi giudizio sul nostro operato, trasferendo su
altri responsabilità che furono unicamente nostre. Lo storico tedesco Lutz
Klinkhammer, osservava, in un saggio di qualche anno fa, come la società
italiana abbia, immediatamente dopo il conflitto, dimostrato una certa
difficoltà a fare i conti con "le proprie responsabilità", attuando "un
meccanismo di vittimizzazione" attraverso il quale autoassolversi dalle atrocità
compiute dal regime fascista in Libia, in Etiopia e in territorio
yugoslavo.
In Italia, per troppo tempo, ci si è lavati la coscienza con
la favola del buon fante italiano cui faceva da pendant il mito del feroce
soldato tedesco: comodo stereotipo che, pur rispondendo in parte a verità,
cancellava dalla memoria collettiva il ricordo delle offese inflitte ad altri
popoli in nome della superiore "civiltà italiana e cattolica". Sotto questo
aspetto, i nostri ex alleati hanno dimostrato di essere assai più disponibili
nell'ammettere le loro responsabilità nello scatenamento del II conflitto
mondiale, e nel denunciare, entro certi limiti, gli orrori del nazismo.
Sensibilità che ha permesso, nei sessant'anni seguiti alla fine della guerra, la
nascita di un robusto sentimento pacifista nella popolazione tedesca, in specie
dell'ex Germania Occidentale, e di una reale cultura dell'accoglienza verso i
profughi e gli immigrati.
Da noi, affermava qualche anno fa il magistrato
torinese Pier Paolo Rivello, "c'è pochissima stampa, pochissima eco delle
sentenze che ancora si danno contro gli scherani nazifascisti". Una smania di
oblio che ha subìto un'improvvisa accelerazione con l'avvento della cosiddetta
"Seconda Repubblica", i cui "padri" fondatori hanno sentito l'esigenza di
riscrivere una storia unitaria degli italiani, al di là delle distinzioni fra
partigiani e repubblichini, che tenesse presente soprattutto conto della zona
grigia costituita da quanti durante il conflitto non vollero schierarsi con
nessuno dei due contendenti, i "pacifisti" come li ha definiti, bontà sua, lo
storico Aurelio Lepre (cfr. "La storia della repubblica di Mussolini. Salò: il
tempo dell'odio e della violenza" Mondadori editore). In particolare, in alcuni
si è sentita l'urgenza di rivalutare, in un'ottica di riconciliazione nazionale,
quanti si sacrificarono per lo stesso ideale di patria e per la difesa dei
valori nazionali, sebbene da "posizioni diverse". Un'esigenza avallata da
importanti esponenti dello Stato che, con le loro pubbliche esternazioni sui
"ragazzi di Salò" che sbagliarono, sull'equivalenza tra campi di sterminio
nazisti e foibe slovene, hanno indicato la via maestra alla revisione del
giudizio storico sul fascismo, superando gli angusti confini del politicamente
corretto di 60 anni e passa di democrazia repubblicana.
Eppure, ricordava
l'ex presidente della repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, non si può conciliare
tutto "dicendo che delle cose negative e accertate diventano positive per
trovare un accordo" (cfr. "Il Messaggero" 15.11.19).
Se il nazismo affermava
nei suoi programmi la sottomissione del pianeta alla superiore razza ariana e
l'eliminazione della gegen rasse giudaica, non si può passare sotto silenzio la
incomparabile mostruosità hitleriana, magari associandola, e dunque sminuendola
, ad altri orrori della storia del Novecento, analoghi per intensità
persecutoria, ma inferiori alla barbarie teorizzata e messa in pratica dalle
camicie brune.
Nondimeno, è assai pericoloso, oltre che mistificatorio,
attenuare le responsabilità storiche del regime fascista, soltanto perché esso
sorse e si sviluppò in un paese economicamente e politicamente arretrato come il
nostro. E' bene rammentare alle giovani generazioni che nel codice genetico del
movimento guidato da Mussolini erano presenti, fin dall'inizio, l'intolleranza,
la violenza e il razzismo. Quando il regime di Mussolini promulgò, nel 1938, le
famigerate leggi razziali, queste non furono scritte per far piacere al potente
alleato tedesco, ma al contrario s'inserirono in una consolidata tradizione
giudeofoba di matrice cattolica, basti ricordare il "razzismo spiritualizzato"
di padre Agostino Gemelli, e il "razzismo biologico" che ebbe nel patologo
Nicola Pende e nel fisiologo Sabato Visco - quest'ultimo ancora preside della
facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell'Università di Roma nel
1963- i massimi teorizzatori.
Ben
venga il superamento degli steccati in nome della concordia nazionale, si
dedichi pure a Giuseppe Bottai una piazza della capitale, a patto però che si
riconoscano le proprie responsabilità e che si faccia pubblica ammenda delle
nequizie compiute dall'Italia fascista prima e durante il secondo conflitto
mondiale. Diversamente, la volontà di superare le contrapposizioni approderà,
suo malgrado, al riconoscimento e alla legittimazione della Bestia
dell'intolleranza. A Bottai si potranno, se lo si riterrà opportuno, dedicare
piazze e strade nella "nuova" repubblica, a condizione che si rammenti nelle
scuole che egli fu, in qualità di ministro dell'istruzione, l'ideatore
dell'epurazione dai manuali scolastici di tutti i riferimenti alla "degenerata
cultura ebraica", che a lui sono da attribuirsi i provvedimenti di espulsione
dall'istruzione per studenti e professori "giudei", e che sempre a lui si deve
la circolare ministeriale che impose l'acquisto e la lettura in tutte le scuole
del Regno della "Difesa della razza", la rivista di propaganda del razzismo
biologico italiano, di cui segretario di redazione fu il giovane Giorgio
Almirante.
Con buona pace del mito del Belpaese, anche in Italia durante
il fascismo, con la complicità delle gerarchie cattoliche, fu attuata una
campagna di discriminazione razziale che garantiva ai soli "italiani", ariani e
cattolici, l'accesso ai diritti. Pio XII, che non mancò di sostenere
direttamente la causa di regimi nazionalintegralisti, come la dittatura
instaurata dopo la Guerra Civile spagnola dal caudillo Francisco Franco, o lo
stato fantoccio croato del duce Ante Pavelic, non si pronunciò mai pubblicamente
in difesa degli ebrei perseguitati, evitando di render nota l'enciclica in cui
si condannava l'antisemitismo scritta dal suo predecessore, Pio XI. Sotto il suo
pontificato le gerarchie ecclesiastiche nella quasi totalità, in Italia e in
Europa, mantennero un profilo assai basso nella testimonianza cristica della
fratellanza, accettando e in taluni casi facendosi addirittura complici
dell'efferato dominio della Bestia. La condivisione del comune nemico
rappresentato dal "dragone comunista" e dalla lobby anticristica
"demo-plutarchica-giudaica", spinse la Chiesa cattolica ad accettare il punto di
vista del potere nazifascista, senza nessuna reale opposizione ai suoi disegni
di dominio, di discriminazione e di sterminio.
Si scorrano i volumi di
quegli anni della prestigiosa rivista dei gesuiti "Civiltà cattolica", e si
comprenderanno le ragioni per cui la civilissima e cristianissima Europa potè
scivolare nel baratro della barbarie. Leggendo quegli articoli grondanti del più
becero antigiudaismo di marca inquisitoriale, si capirà come sia potuto accadere
che nella tollerante Italia, sede del Vaticano, alcune migliaia di ebrei furono
costretti dall'oggi al domani ad abbandonare le scuole, del perché il "Pastore
Angelico" Pacelli non intervenne per denunciare l'infamità delle leggi razziali,
se non a proposito dell'articolo sull'invalidamento dei matrimoni fra cattolici
ed ebrei, conditio sine qua non per le auspicate conversioni dei
miscredenti.
Razzismo all'italiana che ritroviamo , appena ammantato
dalla suprema missione civilizzatrice delle genti italiche e cattoliche, come
cemento ideologico nell'avventura mussoliniana in terra d'Africa nel 1935,
frutto avvelenato di un cinquantennio di retorica colonialista ("Nel caldo dei
deserti e tra l'arena ardente insegneremo a vivere ai negri civilmente",
cantavano i nostri fanti durante l'occupazione di Massaua, in Eritrea, nel
1895) che, accanto ad alcune pagine degne di memoria, si macchiò di crimini
contro le popolazioni indigene alla stregua delle altre potenze coloniali
europee: dalle fucilazioni di massa contro i patrioti, ai gas asfissianti usati
contro l'esercito del governo legittimo di Hailè Selassiè, passando per i
proclami delle autorità coloniali che proibivano ai nostri soldati di
fraternizzare con le donne indigene per non sminuire la "razza
italica".
Se siamo oggi così impreparati dinanzi al risorgere della
Bestia dell'intolleranza, e perché riteniamo, a torto, di essere stati meno
feroci dei nostri alleati, di non aver esagerato contro i nostri nemici, di
esserci sempre comportati da veri "latini" -pizza, mandolino e buoni sentimenti-
cullandoci in uno stereotipo consolatorio e assolutorio, che minimizza i difetti
di una nazione assoggettata ad una dittatura la cui ideologia e i cui interessi
portavano in sé i germi del razzismo, dell'imperialismo e della guerra . Ancora
circola la falsa opinione, anch'essa consolatoria, di un Mussolini
fondamentalmente pacifista, condotto nel baratro della guerra da improvvidi
consiglieri e dal cieco destino. Seppure in scala ridotta, furono gli uomini di
Mussolini per primi a sperimentare l'annichilimento delle opposizioni da
Matteotti ad Amendola, da Gobetti a Gramsci passando per Don Sturzo e i fratelli
Rosselli, a utilizzare la violenza come strumento di controllo politico e
sociale, ad avvalersi del pregiudizio razziale come valvola di sfogo per le
frustrazioni di un ceto economico afflitto da sindrome d'inferiorità nei
confronti delle potenze imperiali occidentali e come riscatto per i milioni di
"cafoni", costretti a cercare fortuna all'estero.
Le deportazioni
in massa degli oppositori libici, negli anni precedenti lo scoppio del II
conflitto mondiale, non furono un incidente di percorso ma frutto di una
perfetta pianificazione che ebbe come scopo l'annichilimento dei patrioti
africani, e questo molto tempo prima dell'Olocausto. Lo stesso vale per le
campagne terroristiche condotte dal regime nelle terre di confine con il regno
Yugoslavo . Nella primavera del 1928, i fascisti compirono una spedizione
punitiva contro la minoranza slava di Gorizia che si era rifiutata di votare in
occasione del plebiscito. I contadini locali reagirono alle violenze e cinque
furono arrestati. Tra di loro Vladimiro Gortan di 25 anni fu condannato a morte
per un omicidio che, in realtà, era stato compiuto dalla milizia fascista. Gli
altri quattro subirono la condanna a trent'anni di reclusione. Al termine
dell'udienza la moglie di Gortan, che era incinta, fu aggredita da un gerarca
che la colpì con calci al ventre.
Un anno dopo altri quattro
goriziani della minoranza slava furono fucilati con l'accusa di complotto
comunista. L'agenzia Stefani, nel dare la notizia, vantò il comportamento del
plotone di esecuzione, composto di camicie nere, un comportamento "superbo di
fermezza e di impassibilità".
Nessun elemento storicamente fondato può oggi
farci parlare di un Mussolini meno feroce, nella sua volontà di potenza, del suo
alleato Hitler. L'8 luglio del 1936, nel corso della campagna d'Etiopia,
Mussolini spediva un telegramma al generale Graziani con il quale lo esortava "a
iniziare e condurre sistematicamente politica del terrore et dello sterminio
contro i ribelli et le popolazioni complici" poiché "senza la legge del taglione
al decuplo non si sana la piaga" (cfr. Del Boca, "I gas di Mussolini. Il
Fascismo e la guerra d'Etiopia", Editori Riuniti).
Occupata Addis Abeba, gli
italiani instaurano un vero e proprio regime del terrore sotto il quale perirono
numerosi patrioti abissini. Furono istruiti processi farsa in cui non erano
concessi i normali termini di difesa agli accusati. "Questa è una turlupinatura
troppo grossa" scriveva l'inviato speciale del "Corriere della sera" nel suo
diario segreto, aggiungendo che la giustizia degli occupanti è una "infamia
senza nome" perché colpisce "innocenti sottoposti a una procedura per essi
incomprensibile, che li porta a condanne atroci senza che vengono neppure a
sapere perché sono stati condannati".
Una parvenza di legalità che
venne totalmente meno quando, nel febbraio del 1937, dopo l'attentato al viceré
Graziani, gli invasori italiani si lasciarono andare ad ogni sorta di nefandezze
contro gli abitanti di Addis Abeba. "Gli italiani girano armati di manganelli e
di sbarre di ferro"- scriveva l'inviato del Corriere- "accoppano quanti indigeni
si trovano per strada. Vengono fatti arresti in massa: mandrie di negri sono
spinti a tremendi colpi di bastone come un gregge. In breve le strade attorno ai
tucul sono seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio
negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una
baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e
innocente".
Nel corso dell'occupazione italiana della Yugoslavia,
dall'aprile 1941 all'8 settembre 1943, il fascismo istruì 8737 processi contro
13.196 imputati, comminando 83 condanne a morte, 412 ergastoli e 3.082 condanne
a 30 anni di carcere. Le vittime della violenza tra civili e partigiani furono
7.000, più di 1.000 gli ostaggi fucilati, oltre 10.000 le case distrutte, circa
40.000 le persone deportate o confinate ( 1/8 della popolazione ) delle quali
circa 7.000 decedute per fame, freddo, stenti e malattie nei campi di
internamento dalmati e italiani.
Sulla persecuzione razziale, che oggi
si preferisce definire "pulizia etnica" , Mussolini non aveva certo bisogno di
maestri . L'11 giugno del 1941, a proposito della questione slovena, espresse in
modo efficace la sua idea in merito: "Quando l'etnia non va d'accordo con la
geografia, è l'etnia che deve muoversi: gli scambi di popolazione e l'esodo di
parti di esse sono provvidenziali, perché portano a far coincidere i confini
politici con quelli razziali". Non è un caso che nella civile Trieste fu attivo
durante il Secondo conflitto mondiale il tristemente noto campo di sterminio
della Risiera di San Saba, l'unico del nostro paese (migliaia d'ostaggi,
politici, partigiani, ed ebrei "intrasportabili" eliminati e inceneriti nei
forni) e che i nominativi di ben 883 italiani figurino in una lista redatta da
una commissione Onu, nel 1947, come "criminali di guerra" per le efferatezze
compiute contro la popolazione slava (L'ispettorato speciale di Ps, insediato a
Trieste fin dal 1942, contro il quale si levò inutile la protesta dell'ordinario
diocesano Santin- "Vi sono particolari che fanno inorridire, si torturavano
anche donne incinte"- dopo l'8 settembre divenne il braccio destro della Gestapo
e cooperò con il famigerato Einsatzkommando di Globcnik. Il massacratore degli
ebrei polacchi).
Se ci siamo dilungati nell'elencare alcuni aspetti così
poco onorevoli della storia patria, è perché nessuno è esente da quel subdolo
virus che ci porta a considerare lo "straniero", il "diverso" una minaccia per
la nostra incolumità, e non al contrario una risorsa, che può arricchirci e
migliorarci. Ciò purtroppo è stato vero nel nostro passato, anche se non tutta
la popolazione italiana fu responsabile dei crimini, ma quello che non fu
possibile allora- l'Olocausto delle minoranze- per l'arretratezza e la scarsa
fierezza razziale di una nazione di cafoni, potrebbe esserlo un domani. La
bestia dell'intolleranza, figlia del razzismo e del suprematismo religioso, non
ha preferenze di sorta, e se un tempo ha parlato il tedesco domani potrebbe
parlare l'italiano, il veneto o il carinziano.
PAOLO
PORTONE